Durante il dibattito
con il pubblico, alla presentazione della mostra GIUSTIZIA A STRISCE presso l’Università
di Foggia, un appassionato ha svolto interessanti considerazioni sulle
rappresentazioni dei giudici nel fumetto disneiano. La tesi era che tali apparizioni fossero più frequenti nelle
storie di Topolino che in quelle di Paperino, visto che il primo opera spesso
come “poliziotto”, e dunque come esponente di una sorta di “ordine costituito”.
Ma è vero?
Abbiamo provato a
fare due conti sul settimanale TOPOLINO, partendo dal n. 3019 (il primo della
attuale gestione a cura della Panini Comics) ed esaminando 50 numeri, sino al
3059 (datato 25/9/2014). Risultato? Effettivamente, le storie di topi battono
quelle di paperi con 5 apparizioni a 3.
Ecco un decano del
fumetto disneiano italiano, Sergio Asteriti (classe 1930), che su testi di
Riccardo Secchi, ci presenta un Gambadilegno spedito di corsa dal Tribunale al
carcere. La storia è “Gambadilegno e l’onesta elezione criminale”, su Topolino
n. 3045.
In realtà, due delle
cinque apparizioni topesche si riconducono alla spassosa serie “Andiamo al
cinema” (testi di Marco Bosco), ove i topi sono usati come puri interpreti di vicende
che imitano quelle dei vari generi cinematografici. Una serie, insomma, che
avrebbe potuto essere impersonata anche dai paperi.
Così, se escludessimo
queste due apparizioni, il bilancio sarebbe in parità.
Ma nemmeno questo
dato è esatto, e i topi vincerebbero comunque, dato che nel periodo considerato
le storie con Topolino & co. sono in numero nettamente inferiore a quelle
con i paperi: esattamente 124 a
205.
La tesi, insomma, ha
un riscontro documentale, sia pure limitatamente ad un campione limitato e
piuttosto recente.
Va detto però, che a
insindacabile giudizio di questo blog, una storia di paperi è la più divertente
tra quelle “giudiziarie” qui prese in considerazione. Si tratta di “Zio
paperone e il processo numismatico”, di Silvia Martinoli e Ottavio Panaro, sul
n. 3063. Zio Paperone deve difendere in tribunale la “Numero Uno” dalle pretese
di una apparente nobildonna scozzese, che si rivelerà poi essere la sua
arcinemica, la strega Amelia.
Se la conduzione del
dibattimento lascia un po’ a desiderare (il solito giudice-gufo manifesta noia,
fastidio, e una inverosimile propensione a raccogliere libere opinioni dei
presenti in aula, inclusi i minorenni Qui, Quo e Qua), davvero impagabile è la
definizione finale del Tribunale come luogo “adatto per usare le parole”.
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