Ritratto dell’artista da giovane
Per molti artisti, il rapporto con le opere giovanili non è stato idilliaco. C’è chi le ha rinnegate, chi le ha distrutte, chi semplicemente non ha mai ammesso di averle realizzate.
Per molti artisti, il rapporto con le opere giovanili non è stato idilliaco. C’è chi le ha rinnegate, chi le ha distrutte, chi semplicemente non ha mai ammesso di averle realizzate.
Nel
campo del fumetto, uno dei casi più emblematici riguarda il personaggio di TINTIN.
Quando il suo creatore, Hergè, che
aveva realizzato il primo episodio un po’ per caso, raggiunse la maturità,
decise di riprendere in mano gli episodi giovanili, ridisegnarli in parte, e
farli entrare, solo in questa nuova veste, nelle collane di ristampe destinate
ad eternare la fama del personaggio; ma da questo trattamento fu sempre
risparmiato l’esordio, “Tintin nel paese dei soviet”, che poté essere ristampato
solo poco prima della morte del suo creatore.
Tintin al museo del fumetto di Bruxelles
Vittorio Giardino, maestro pluripremiato le cui opere
sono tradotte in mezzo mondo, non ha mai dato l’idea di soffrire particolari
imbarazzi nel rievocare gli anni difficili degli esordi; è noto a tutti i suoi
lettori, del resto, che egli abbracciò il fumetto con convinzione ed incoscienza,
da adulto autodidatta, rinunciando ad una carriera già avviata di ingegnere.
Eppure,
sebbene tutte le cronologie delle sue opere riportino diligentemente i cinque
racconti apparsi nel 1978 sul supplemento La
città futura – Fumetto, pochissimi lettori potevano dire di averle lette, e
pochissime occasioni vi erano state, per Giardino ed i suoi storici, di
citarle. Troppo diverso, quello stile acerbo degli esordi, dalla “linea chiara”
che lo avrebbe reso famoso.
Per
dare un’idea, il primo grande volume antologico dedicato al Maestro, il “Glamour
Book” edito nel 1986 a cura di Vincenzo Mollica e Antonio Vianovi, dedica a
queste storie solo quattro pagine. Altrettante sulla monografia curata da Oscar
Cosulich nel 2013, cinque su “La quinta verità”, nulla su altre antologie o
volumi critici.
Insomma,
il dubbio che Giardino in fondo si vergognasse un po’ dei suoi esordi,
esisteva; e non era certamente facile, né per i comuni lettori, né per i fan
sfegatati del Maestro, poter giudicare con i propri occhi quale fosse la
qualità di quelle cinque storie. La rivista che le aveva pubblicate, infatti,
era un supplemento aperiodico ad una rivista edita dalla FGCI, costola del
Partito Comunista Italiano che fu. Una testata, dunque, non professionale, anche
se pubblicò fumetti di grandi autori, soprattutto francesi, sotto la direzione
di quel Luigi Bernardi che in seguito, come direttore della rivista Orient Express e di tanto altro, sarà un
protagonista dell’editoria italiana, a fumetti e non.
Circolavano,
anzi, varie leggende su questa introvabile testata; una, di fonte oscura,
voleva che un esponente dell’ex P.C.I. (o P.D.S., o D.S., o niente…), una volta
giunto al potere, avesse deciso di eliminare quante più collezioni possibile,
proprio per cancellare, a sua volta, qualche imbarazzante scritto di gioventù.
Senonché
a Lucca Comics, edizione 2019, l’editore Mauro Paganelli ha presentato, un po’
a sorpresa, il volume STORIE DA
DIMENTICARE, che non solo ristampa i cinque episodi già editi (quattro
direttamente dalle tavole originali), ma ne ripesca addirittura un sesto, a suo
tempo non pubblicato per la prematura scomparsa del supplemento.
Fumetti & pannolini
“Storie
da dimenticare” a conferma della vergogna dell’autore? Macché, si tratta di un
doppio senso per così dire postumo; il ciclo di storie fu infatti presentato con
questo titolo fin dalla sua prima apparizione, quando certamente il suo autore
non poteva prevedere gli sviluppi della sua carriera. Semplicemente, la serie
ebbe questo titolo perché ogni episodio, indipendente dall’altro, mostrava le
nefandezze di una certa epoca, pescando a piene mani tra le nequizie della
storia: le violenze dei romani alla conquista del mondo; quelle dei coloni
americani sui nativi; e poi la tratta degli schiavi, l’antisemitismo, ed altre
forme di sopraffazione dell’uomo sull’uomo.
I quattro numeri de "LA CITTA' FUTURA" su cui apparvero i primi fumetti di Giardino
Nella
prefazione al volume l’autore racconta con la consueta bonomia l’origine di
queste storie; non nasconde che si trattò di esperimenti, una sorta di tributo
a Dino Battaglia, un autore che in quel momento Giardino considerava come un
modello; di qui la ricerca di un tratto ricco di grigi, in totale contrasto con
lo stile grafico pulito che poi l’autore svilupperà negli anni a venire, e che
è diventata il suo marchio di fabbrica.
Anche
nella difficoltà di trovare la propria cifra stilistica, Giardino non perse
l’indole sperimentale da ingegnere: “Dopo
aver provato tecniche e strumenti diversi, alla fine scelsi il tampone di
garza. Sfruttai la garza di ricambio dei ciripà che all’epoca giravano per casa
e costruii alcuni tamponi che, opportunamente intrisi di inchiostro e premuti
con pressioni modulate sulla carta, ottennero l’effetto che potete vedere”.
Ma questo effetto, in realtà, lo si vede ora per la prima volta a distanza di
quarant’anni, poiché la stampa de La
città futura non consentiva di apprezzare certe sfumature. I non molti
lettori che dispongono di entrambe le edizioni, possono divertirsi ad operare i
dovuti confronti.
“Dal dì che nozze, tribunali ed are…”
Tra
gli episodi che compongo il libro, quello più meritevole di essere menzionato
in un blog dedicato ai fumetti ed al diritto è certamente “Pax romana”.
Il
titolo sembra ispirato alla famosa espressione Fecero un deserto e lo chiamarono pace, rivolta ai Romani da un
condottiero dei britanni e riportato da Tacito nel “De Agricola”. Protagonista
della breve storia, infatti, è Davus,
un giovane dacio che si trova a Roma durante l’erezione della Colonna Traiana,
l’opera che ricorda appunto la vittoriosa campagna militare contro i daci.
Davus
si ritrova a Roma, integrato in quella società, vinto politicamente e
militarmente, ma incapace di adattarsi ad una nuova realtà di cui fatica a
scorgere il senso, e di cui individua simbolicamente alcuni elementi: la
scrittura, il circo, ed il Tribunale.
Sappiamo
poco su come funzionasse l’amministrazione della giustizia presso i daci; è
probabile che una qualche forma di “tribunale” esistesse anche prima della
conquista di Traiano; ma certamente il diritto romano è considerato, ancora
oggi, alla base degli ordinamenti giuridici moderni di stampo latino (il
cosiddetto Civil Law, contrapposto al
Common law di origine anglosassone).
E certamente il tribunale è uno dei simboli della cultura romana, tanto che,
per anni, come abbiamo raccontato qui, un simbolo di romanità come Marco Tullio Cicerone ha dato il volto
alle marche da bollo utilizzate per gli atti giudiziari.
Una
piccola digressione sulla Colonna Traiana: non sono pochi gli autori che, nella
rappresentazione della campagna di Dacia scolpita sul monumento, hanno visto
una sorta di protofumetto per l’uso della successione di immagini.
L’affermazione
si trova in alcuni dei più noti testi italiani di storia del fumetto: tra
questi “I primi eroi” (Garzanti, 1965); “I fumetti”, di Gaetano Strazzulla
(Sansoni, 1970); “Didattica dei fumetti” di Domenico Volpi (La Scuola, 1977).
da "Didattica dei fumetti", di Domenico Volpi
Non solo per fan
A chi
può interessare oggi un’opera simile? Certamente ai devoti di Giardino, specialmente
quelli che, da anni, cercavano di
reperire i rari esemplari de La città
futura – fumetto. Ma, in generale, e nonostante il disegno incerto e lo
stile lontanissimo da ciò che va di moda oggi, anche al lettore di fumetti
semplicemente curioso. Utilizzare brevi storie di poche pagine per narrare
flash storici a volte inconclusi, può alla lungo stancare chi oggi è abituato alle
graphic novel o a storie di più robusta struttura; ma in realtà costituisce un
utilizzo del fumetto che ha ancora qualcosa da dire.
Ciò
che colpisce soprattutto, in queste storie, è la voluta mancanza di pathos. I
drammi della storia sono narrati per lo più dal punto di vista di chi li ha
vissuti senza minimamente rendersi conto dell’infamia e dall’ingiustizia di
quanto stava accadendo. La freddezza del capitano della nave negriera, che ai
suoi superiori racconta algidamente di aver dovuto gettare in mare il carico,
come se parlasse di casse di rhum e non di persone, è uno degli esempi di
questa imperturbabilità del male.
I
protagonisti di queste storie sembrano insomma non consapevoli, tranne rare
eccezioni, di essere tasselli di un ben misero mosaico che, parafrasando il
titolo della prima raccolta di racconti di Jorge Luis Borges, potrebbe ben chiamarsi
“Storia universale dell’infamia”.
Un Giardino
“politico”? Forse sì, se con questo aggettivo si intende non l’adesione
acritica a questa o quella consorteria, ma la consapevolezza di dove si trovi
l’ingiustizia nella storia e nell’anima dell’Uomo. Ed allora forse non sembrerà
arbitrario, in questi giorni oscuri, ricollegare quelle pagine del 1978 ad
altri, più recenti interventi grafici del Maestro. Come il manifesto utilizzato
per la mostra “L’offesa della razza”, che rievoca le leggi razziali volute dal
preteso “Grande statista del ventesimo secolo”. O il disegno qui sotto,
utilizzato per un testo scritto da Liliana Segre, sopravvissuta all’Olocausto e
senatrice a vita, che oggi deve subire la vergogna di una scorta per
proteggerla dalle minacce ricevute.
Francesco Lentano