sabato 29 agosto 2020

TORNA KRIMINAL IN EDICOLA (e questa volta non finirà a processo)

Torna in edicola KRIMINAL. 


La Gazzetta dello sport, quotidiano che da tempo attinge a piene mani dalla storia del fumetto per proporre nuove collane di cosiddetti “Collaterali”, punta questa volta su un personaggio nato, sulla scia di Diabolik (che continua tuttora ad uscire in edicola), nel 1964, e che ha cessato le pubblicazioni regolari dieci anni dopo, pur riapparendo periodicamente in ristampe, riprese, volumi antologici. 
Questa volta la riproposta riguarda 114 albi della serie, usciti originariamente in bianco e nero e in formato tascabile, riproposti a colori, in dimensioni un po’ allungate e con delle figurine in allegato, in modo da poter completare la raccolta dell’album uscito insieme al primo numero. 
E’ difficile dire qualcosa di originale su Kriminal. Il personaggio è citato in tutte le enciclopedie del fumetto; esistono volumi monografici di saggistica 

             
  
il suo creatore letterario, Luciano Secchi in arte Max Bunker, è tuttora in attività e potrebbe in ipotesi rilanciare la serie (è morto invece il creatore grafico, Roberto Raviola in arte Magnus). Qualche anno fa l’editore Mondadori aveva addirittura annunciato una nuova serie, con tanto di numero zero presentato a Lucca, la più importante manifestazione di settore; per ragioni mai del tutto chiarite non se ne fece nulla. 


Le opinioni generali sul personaggio sono sintetizzabili in poche parole. Nacque sull’onda del successo di Diabolik insieme a molti altri personaggi, ma contrariamente ad essi, non fu un clone né un sottoderivato. Lanciò anzi nuove idee, con un setting più realistico (la serie di Diabolik è ambientata in luoghi immaginari) e un tasso di violenza ed erotismo che introdussero qualcosa di nuovo, non in maniera gratuita e voyeuristica, ma nel tentativo di togliere, al fumetto come linguaggio letterario, la condanna di essere destinato solo ai bambini o solo a chi crede in un mondo edulcorato ove il Bene sconfigge il Male. 
Nel tentativo di onorare questo ennesimo rilancio in edicola con una chiave di lettura più originale, proviamo ad affrontare una descrizione del personaggio dal punto di vista del diritto penale
Rappresentazioni di giudici e processi sono abbastanza ricorrenti nella serie ed il primo esempio coincide proprio con il primo numero. Kriminal altri non è se non un uomo assetato di vendetta. Considerando responsabili della morte di suo padre gli ex soci, alcuni li uccide con le sue mani, mentre per un altro si fa “giustizia” in maniera ancora più articolata, facendolo condannare a morte dopo aver inscenato a suo carico le prove di un omicidio in realtà commesso da lui stesso. 
La scena processuale è talmente enfatizzata dal disegnatore da dedicare ad essa la prima delle tre vignette a tutta pagina che adornano il racconto. 

                        

A dare ancora più colore alla trovata letteraria c’è il tentativo, da parte di un bravo ispettore di polizia, di far ottenere una sospensione dell’esecuzione, dopo aver smascherato l’errore giudiziario. Ma l’ispettore Milton, destinato a diventare l’antagonista di Kriminal (come Ginko per Diabolik), arriverà un attimo dopo, ad impiccagione avvenuta. 
Potrebbe trattarsi di una citazione fumettistica, dato che anche nel primo episodio di Superman, il primo eroe con superpoteri della storia del fumetto, vi è una sequenza simile, con l’eroe in costume che interviene all’ultimo secondo per salvare dal braccio della morte una donna ingiustamente condannata. 
Sequenza processuali intervengono più volte nella storia della serie, ed è impossibile citarle tutte; proviamo invece a proporre un altro piano di lettura: quello del rapporto tra Kriminal, inteso come testata editoriale e non solo creazione letteraria, e la giustizia italiana. E’ noto infatti che la serie, come molte altre, fu oggetto di vari interventi da parte della magistratura; si trattava di prodotti editoriali nuovi, che apparivano in contrasto con il buon costume. In un’epoca in cui qualche giudice di provincia si divertiva a denunciare le turiste tedesche in topless (come il pretore Vincenzo Salmeri di Palermo, che anni dopo Maurizio Costanzo invitò perfidamente ad un suo talk show in compagnia della pornostar Cicciolina), anche fare l’editore o lo stampatore di fumetti, poteva rischiare di aprire le soglie della prigione. 
In molti siti internet si legge che Andrea Corno, scomparso nel 2007, fu condannato, nella qualità di editore di Kriminal, a sei mesi di reclusione ed 800.000 lire di multa. In realtà le cose furono un po’ più complicate. 
In mancanza di fonti dirette (recuperare oggi sentenze dell’epoca non è agevole), proviamo a ricostruire un quadro un po’ più ampio con l’ausilio dell’archivio storico del Corriere della Sera. Ciò ci consente di investigare contemporaneamente due aspetti complementari ma diversi: la mentalità della nostra magistratura, oggi spesso accusata di essere eversiva perché “progressista”, ma in passato spesso piuttosto conservatrice; ma anche la mentalità del primo quotidiano italiano, che spesso mostrava di plaudire a certi interventi censori, pur avendo tra i suoi collaboratori storici quel Dino Buzzati che del fumetto italiano fu uno dei profeti, difendendolo pubblicamente e pubblicando, sotto il titolo “Poema a fumetti”, un libro che oggi è considerato quasi un antesignano delle moderne graphic novel. 



Ecco, quindi, alcuni estratti. 
L’11 aprile 1965, sotto il titolo “La giustizia interviene contro i fumetti del terrore”, un anonimo articolista informa che “La Procura della Repubblica di Milano ha scatenato un’offensiva massiccia contro i fumetti per adulti… Dall’Ufficio del sostituto procuratore dottor Guicciardi sono partiti, a raffiche successive, gli ordini di sequestro intenzionati a ripulire le edicole di tutta Italia dalle pubblicazioni periodiche dell’orrido”. 


Dopo aver precisato che nel mirino ci sono
Diabolik, Demoniak, Sadik, Satanik, Kriminal (una cui immagine è usata per illustrare l’articolo), Spettrus, Fantax, Mister X, Rocambole, Agente Coplan, l’estensore informa che quella dichiarata dalla magistratura milanese è una “guerra seria”, dal momento che queste pubblicazioni rappresentano “un pericoloso canale di distillazione di un sottile veleno … che subdolamente emana dai protagonisti del fumetto … assurdi personaggi amorali, violenti e crudeli”. 
Le imputazioni, a carico non dei singoli fumettisti, ma dell’editore (che nel caso di Corno era anche direttore responsabile della testata), stampatore e distributore, riguardavano i reati di pubblicazioni oscene e commercio di scritti o disegni contrari alla pubblica decenza (reati oggi entrambi depenalizzati). 



La successiva menzione di Kriminal sul quotidiano milanese è sull’edizione del 22/5/1966. Questa volta siamo non nella cronaca nera ma in quella letteraria, l’articolo è di Leonardo Vergani (figlio di Orio, una firma storica del giornale), ed il titolo “I perversi eroi dei fumetti affascinano milioni di italiani” ne costituisce una buona sintesi. L’autore sembra più stupito che indignato dalla nuova moda; dimostra di conoscere poco il mondo del fumetto in generale (Paperino viene definito “misogino”, Linus è citato come personaggio umoristico / per bambini); eppure si lancia anche in complesse dissertazioni di stile, come quando afferma: “L’acquiescenza del lettore è, con ogni probabilità, provocata anche dalla forma grafica del racconto. Vignette quasi tutte dello stesso taglio e delle identiche dimensioni, senza salti di tono, nuvolette gremite di parole in corpo minuscolo finiscono per produrre un lieve stato di ipnosi”. 
Con l’edizione del 15/9/1966 si torna alla cronaca nera e si annuncia l’inizio del processo, che sembra il medesimo di cui il giornale aveva riferito l’anno prima, anche se nel corso dell’indagine qualche pezzo dev’essersi perso per strada perché sono finiti alla sbarra solo Kriminal, Satanik, Demoniak, Sadik e Killing (quest’ultima serie non citata nel precedente articolo). Nell’articolo, non firmato, si dà atto che gli imputati relativi alla testata di Diabolik sono stati prosciolti in istruttoria. 



Un mese dopo, il 19/10/1966, la testata milanese ospita un intervento di Giovanni Russo (altro raffinato intellettuale, meridionalista, firma illustre del quotidiano milanese) ove si afferma che “la diffusione di questi fumetti per adulti (a prescindere dalle conclusioni del processo che si inizierà al tribunale di Milano alla fine di ottobre) ha sollevato una serie di problemi per l’opinione pubblica che sono animatamente discussi da educatori, psicologi e sociologi nonché da studiosi della letteratura a fumetti, che sembrava, fino a ieri, uno strumento, piuttosto inoffensivo, di divertimento e di evasione”. L’articolista sembra condividere il proscioglimento di Diabolik (“effettivamente, è disegnato con maggiore garbo”) e sostiene che, per i protagonisti dei fumetti neri, “i loro fini sono solo il successo, il danaro e le donne … non esistono norme civili o morali”. 
Giovanni Russo torna sull’argomento con un secondo articolo pochi giorni dopo; dimostra di sapere di cosa sta parlando (cita correttamente varie serie americane, Linus e Pogo, gli interventi di Umberto Eco, i sociologhi americani); dichiara di apprezzare che in Italia siano iniziati seri studi sul fumetto, anche ad opera dell’Istituto di pedagogia dell’Università di Roma, che sarà uno dei centri propulsivi per la nascita del Salone di Bordighera e poi di Lucca; ma insiste nel ritenere che in Italia il fumetto resta in forma “rozza”, e classifica indistintamente come tali tutti i nuovi antieroi con la K nel nome, definendoli del tutto privi di senso dell’umorismo. 
Il 28/10/1966 il Russo completa la sua trilogia chiedendo a vari personaggi cosa ne pensino dei fumetti neri. Tra gli interpellati ci sono il regista Federico Fellini (“Noi italiani abbiamo il mito dell’eroe sanguinario; anche il fascismo usava una simbologia macabra fatta di teschi e di pugnali tra i denti ma, a differenza di altre società, manchiamo di senso dell’umorismo”); la studiosa Elena Croce, figlia di Benedetto (che stabilisce una analogia con i western all’italiana); il romanziere Alberto Moravia (“il male vero lo fa la vita e non dipende dalla letteratura, sia pure a fumetti, ma da molti fattori, tra cui la famiglia che è la fonte, troppo spesso in Italia, di ogni diseducazione”); lo psicanalista Nicola Perrotti (il quale sembra azzardare una difesa di questi prodotti, riconducibili al problema della carica aggressiva che c’è in ogni uomo; la loro diffusione sarebbe anche la prova delle lacune italiane nel creare più utili valvole di sfogo, come lo sport). 
Nel campo della nascente saggistica fumettistica, l’autore dell’articolo cita Luigi Volpicelli, Romano Calisi, Sergio Trinchero, mentre il povero Traini, che sarà per tanti anni il patron del Salone di Lucca, è chiamato “Renato” anziché “Rinaldo”. E proprio a Romano Calisi viene attribuita una affermazione che oggi suona ovvia a chi studi retrospettivamente il fenomeno, ma che per il paludato giornale di via Solferino doveva essere un po’ ostica: “Calisi pensa che i fumetti neri hanno spesso aspetti di grande volgarità ma sono anche gli unici che affrontano motivi di critica alla società italiana e che parlano di funzionari corrotti, di abusi; di un mondo, cioè, non astratto, ma collegato alla realtà”. 
Le conclusioni del Russo sono nel senso che non sia necessario introdurre, come nel cinema, una censura preventiva; ma che “ci vorranno ancora degli anni prima che la società Italia diventi una vera società di massa con i suoi fumetti pieni di personaggi positivi, di Arcibaldi, Petronille, e Superman italiani. Allora avremo forse altro a cui pensare. Ci saremo già dimenticati dei fumetti neri, un fenomeno che, proprio per il suo carattere e la sua volgarità, è inevitabilmente destinato ad un rapido tramonto”. 
Il Corsera torna a parlare del processo nella edizione del 28/10/1966; l’articolo, non firmato, riferisce di un rinvio del processo, precisando che “Gli stessi periodici oggi incriminati erano già stati giudicati dal Tribunale di Lodi, che li aveva però assolti il 25 febbraio dello scarso anno dal reato di pubblicazione oscena. E il 6 dicembre, la Corte d’appello di Milano li aveva definitivamente assolti perché il fatto non costituisce reato”. 
Un articolo del giorno successivo riferisce su un comunicato del consiglio regionale lombardo dell’Ordine dei giornalisti. In esso si legge che il Consiglio, “dopo aver constatato che nessuno dei detti periodici è emanazione di grandi complessi editoriali e che anzi, nella stragrande maggioranza, si tratta di iniziative individuali che non lasciano dubbi sulla loro natura di deteriore speculazione … fa appello agli iscritti all’Ordine, che ricoprono l’incarico di direttore responsabile dei periodici in questione perché, nello svolgimento delle loro attività, non si discostino da quei fondamentali principi dell’etica professionale che esigono di non fomentare istinti malsani, né sentimenti morbosi”. 
Il 21/12/1966 un articolo interlocutorio si segnala solo per usare, ancora una volta, proprio una copertina di Kriminal come immagine illustrativa; mentre un pezzo del giorno successivo informa di un altro rinvio, dovuto alla circostanza che il pubblico ministero aveva, in udienza, contestato un ulteriore reato. 


L’8/2/1967 il quotidiano riferisce di una udienza nella quale gli imputati si sono sottoposti ad interrogatorio ed il p.m. ha formulato le conclusioni; l’articolo è illustrato con una copertina di Satanik. Delle dichiarazioni rese da Andrea Corno nulla viene riferito, mentre l’unico imputato le cui dichiarazioni sono riportate tra virgolette è
Fulvio Scocchera, il quale è chiamato a rispondere della serie di Sadik. “A lei sembra che ci sia da ridere vedendo, per esempio, un uomo che prende a scudisciate una donna?”. A questa domanda del Presidente del Collegio, l’imputato rispose: “Sì, perché è una storia innocua, che non ha alcun aggancio con la realtà; è come quella di Biancaneve e i sette nani!”. 
L’articolo riferisce anche dei toni utilizzati dal p.m. nella requisitoria: “Sono pubblicazioni che esaltano il delitto e ne danno versioni compiacenti … in modo da influire negativamente sui giovani, specialmente su quelli meno intelligenti”. 
Il processo si conclude con la condanna, tra gli altri, di Andrea Corno, a sei mesi di reclusione e 800.000 lire di multa (condanna anche per lo stampatore); ma il giorno successivo il giornale riferisce di una seconda condanna, nella stessa sezione ma ad opera di un altro collegio, senza spiegare se si trattasse di una diversa indagine o chiarire perché i processi non fossero stati riuniti. Questa volta Andrea Corno è condannato a 2 mesi e 15 giorni di carcere e 50.000 lire di multa, mentre viene assolto lo stampatore per insufficienza di prove. 
Il 17/2/1967, un nuovo articolo ha un titolo che dice già tutto: “Dopo Kriminal condannata Gesebel”. Ad essere finito in giudizio è il n. 8 della serie di fantascienza scritta sempre da Luciano Secchi; si legge nell’articolo che, secondo l’accusa, nell’albo in questione “venivano illustrate donne quasi nude in atteggiamenti gravemente offensivi al pudore, con didascalie e frasi volgari, costituenti nel loro complesso oltraggio alla morale”. L’articolo ricorda anche che questa “è la terza condanna che Andrea Corno, editore anche di Kriminal e Satanik, riporta in quindici giorni”. 
Il 31/5/1967 il Corriere informa della assoluzione dell’editore di Isabella, ma il 31/5/1967 viene reso noto un nuovo rinvio a giudizio per editori e stampatori di Kriminal, Satanik, Killing, Killing, Isabella e Goldrake
Il 27/2/1968 si dà notizia della condanna in appello di Andrea Corno (ma senza precisare di quale condanna si trattasse tra le tre; verosimilmente della prima) a sei mesi e 15 gg. di reclusione e 60.000 lire di multa. 
Il 29/4/1968 un brevissimo trafiletto informa che è iniziato un nuovo processo ad editori, stampatori e distributori di Kriminal, Satanik, Goldrake, Isabella, Messalina, Jezebel, Belfagor, Caballero. Processo rapidissimo: il 7 maggio si dà notizia della condanna di Andrea Corno, sempre ad opera della terza sezione penale del Tribunale di Milano, a 3 mesi di reclusione e 300.000 lire di multa. 
La cronaca nera finisce qui; dando per certo che tutti gli articoli siano stati correttamente digitalizzati, non si rinvengono ulteriori menzioni relative ai processi subìti da Andrea Corno quale editore di Kriminal e di altre pubblicazioni. La casa editrice otterrà poi grandi successi con collane non particolarmente a rischio (l’umoristico, anche se graffiante, Alan Ford; i supereroi della Marvel come I Fantastici Quattro, L’Uomo Ragno, Capitan America e tanti altri); e la bolla, anche scandalistica, dei fumetti neri, finirà con lo sgonfiarsi poco a poco. 

                 

Il massimo quotidiano italiano resta sul tema con articoli di più ampio respiro. Il 4/9/1970 una firma importante come Giuliano Zincone si lancia innanzitutto in una sorta di censimento un po’ manicheo dello scibile fumettistico: “I ragazzi perbene leggono il Corriere dei piccoli o Topolino, i nostalgici del classico consultano Mandrake, Flash Gordon e L’Uomo mascherato; gli amanti della giustizia demiurgica divorano Superman e Batman, i guerrafondai si appassionano alle avventure di cielo, di terra e di mare pubblicate nella collana Supereroica, gli adulti sfogliano febbrilmente Diabolik (o i suoi derivati: Kriminal, Satanik, Sadik, Infernal etc), i sessuofili amano Jungla, Walalla, Lucrezia, i raffinati consultano collezioni di Barbarella, Jodelle, Poppea, gli intelligenti di sinistra commentano Linus, quelli di centro-destra cercano conforto in Eureka, i collezionisti si scambiano annate di Rip Kirby, Braccio di ferro e Capitan Cocoricò (in lingua originale)”. 
Prosegue Zincone ammettendo che “i fumetti …rappresentano un fenomeno commerciale e sottoculturale che non si può liquidare con brusche condanne o con atteggiamenti troppo distratti: queste pubblicazioni traducono in immagini semplici i miti della società nella quale circolano e le restituiscono, con elementare sincerità, quello che essa è capace di dare”. Tanta apparente apertura, tuttavia, sembra rinchiudersi in affermazioni quali: “La società dei fumetti per ragazzi è frutto, il più delle volte, di una visione idillica della realtà ma è, approssimativamente, autentica; nelle pubblicazioni per adulti, invece, la società è clamorosamente falsa e piena di connotazioni pessimistiche”. 
Le conclusioni sulla evoluzione del fumetto e della sua considerazione pubblica come prodotto sottoculturale le lasciamo al singolo lettore. Qui ci limitiamo a ricordare che il Corriere della Sera, come tutti i giornali, da molti anni parla di fumetti con simpatia e competenza, senza pregiudizi. 
Proprio di una protagonista dei fumetti neri, Satanik, il quotidiano milanese è tornato a parlare con una delle sue firme, il recentemente scomparso filosofo Giulio Giorello, che in un pezzo apparso il 14/3/2007 mette insieme Magnus, Bunker, Dante, Wolfgang Goethe, Ezra Pound, Italo Calvino, in un pezzo intitolato “Satanik, il fumetto che ha anticipato la genetica”. 



Sarebbe facile, oggi che il fumetto è insegnato e studiato nelle università, considerare sciocchi certi giudizi apparsi sul maggior quotidiano italiano. Le cose vanno, ovviamente, contestualizzate. Era un’altra Italia; e basta leggere un qualsiasi articolo di cronaca, anche quelli casualmente apparsi a fianco dei resoconti sui processi a Kriminal, per rendersene conto. 
Era, quantomeno e se non altro, un’Italia dove si leggeva.

     "Edicola", di Renato Guttuso



© per il personaggio di Kriminal: Max Bunker
© per l’archivio storico del Corriere della Sera: RCS Mediagroup s.p.a.
© per il testo dell’articolo: Francesco Lentano



domenica 12 aprile 2020

EVERETT RAYMOND KINSTLER, un fumettista alla Casa bianca


Questa è la storia di un ragazzo che crebbe con un sogno, ma fu costretto ad abbandonarlo. Che ripiegò su altro, e in quell’altro divenne il migliore di tutti. Che attraversò varie vite e carriere, sempre nell’ambito artistico, senza paura e pregiudizi.
È una storia poco nota in Italia, ma che incrocia personaggi e situazioni ben conosciute anche da noi.
È la storia di Everett Raymond Kinstler.


Nato a New York nel 1926 da genitori di classe media, del tutto estranei all’ambiente artistico, Everett già a sette anni costrinse la madre a sforare dal budget familiare per acquistargli una serie completa di libri illustrati. Da bambino non faceva che disegnare, spesso ispirandosi agli autori di fumetti che vedeva sui quotidiani (soprattutto Hal Foster, Alex Raymond e Milton Caniff); poi, crescendo,  il suo interesse si concentrò sugli illustratori delle riviste che all’epoca andavano per la maggiore come Collier’s, The Saturday Evening Post, The American Magazine. Artisti che oggi sono un po’ dimenticati come Dean Cornwell, Norman Rockwell, e soprattutto James Montgomery Flagg, di cui pochi ricordano il nome, ma tutti hanno visto almeno un’opera: il celebre “Zio Sam” realizzato nel 1917 per convincere gli americani ad arruolarsi e combattere la prima guerra mondiale.


Già nella sua adolescenza, il giovane Kinstler si convinse che sarebbe diventato un collega di questi maestri, ed avrebbe visto le sue opere stampate su quelle prestigiose riviste; tanto che, minorenne, si presentò sfacciatamente a casa di Flagg, portando il suo portfolio.
Ma che studi effettuare per realizzare simili sogni? Dopo l’istruzione primaria, si iscrisse alla Music and Art High School, pensando di affinare i suoi talenti  in vista della carriera di illustratore che gli interessava; ma gli fu detto, come lui stesso ricordò, che quella di Norman Rockwell, Milton Caniff o Alex Raymond “non era arte. Si trattava solo di arte commerciale, mentre i veri artisti dipingono ciò che sentono”.
Kinstler sentì che era il momento di cambiare; ripiegò su un istituto tecnico, ma poi abbandonò anche quello preferendo, ad una istruzione formale, l’esperienza sul campo.
Nel 1942, infatti, a soli sedici anni, il ragazzo iniziò una carriera nel campo del fumetto, assunto da Richard E. Hughes, titolare di uno studio che forniva materiale alla Standard Comics. Kinstler lavorò come inchiostratore di Ken Battefield su  albi dai titoli suggestivi come Startling Comics o Real life comics.
Tra gli sceneggiatori, curiosamente, vi era una donna, Patricia Highsmith, allora poco più che ventenne, e destinata a sfondare come romanziera, autrice di opere adattate anche per il cinema come “Delitto per delitto” (Alfred Hitchcock) o “Il talento di Mr. Ripley”. Il giovanissimo Kinstler raccontava di essersi  innamorato di lei, ma di non avere speranze, essendo molto più piccolo della “collega”. Cercando di rendersi servizievole, il ragazzo chiedeva  continuamente di poter fare qualcosa per lei; ma quando la Highsmith, esasperata, gli chiese di andare a prendergli una Coca Cola per toglierselo un attimo di torno, lui si presentò con una Pepsi…
Non molto tempo dopo, Kinstler potè affrontare la sua prima storia da matitista, ed ampliare le sue collaborazione realizzando illustrazioni per le pagine interne (non a fumetti) di “pulp” come The shadow, Doc Savage ed altre testate delle case editrici Popular Publications (sino al 1953) e Street & Smith, tra cui la mitica Astounding Science Fiction.

Compiuti 18 anni, Kinstler fu reclutato nell’esercito, ma prestò un comodo servizio in New Jersey, non lontano da casa, potendo così continuare le collaborazioni. Come molti altri artisti, diede il suo contributo alla vittoria con una striscia a fumetti: Strictly G.I., apparsa per circa 40 episodi sul giornalino della base militare.


Nel 1947, terminata la collaborazione con Hughes, Kinstler disegnò quattro storie per la DC, ma la collaborazione non ebbe sviluppi, soprattutto per la volontà dell’artista di approdare ad una carriera nel campo della illustrazione.
Nel 1948 alcuni disegni furono utilizzati come copertine per pubblicazioni della Fawcett Publications, tra cui Hopalong Cassidy e Tom Mix. La copertina qui sotto potrebbe suonare familiare al lettore italiano...



… visto che assomiglia non poco a quella realizzata da Aurelio Galleppini per la copertina del romanzo “Il massacro di Goldena”, con protagonista Tex. Del resto, che l’amatissimo Galep si “ispirasse” ad opere di provenienza americana, è stato documentato in più occasioni.



Nel 1950 Kinstler iniziò a lavorare, sia per le copertine che per storie a fumetti, con la casa editrice Avon, su numeri unici come Pancho Villa e Teddy Roosevelt, e periodici come Jesse James o Zorro. In quel periodo, per la casa editrice lavoravano artisti che in seguito incrociarono le strade della Marvel, come Syd Shores o Wally Wood.
Tra le serie della Avon, una ha un nome che suona familiare al lettore italiano: si tratta di una delle tante incarnazioni a fumetti di Kit Carson, da noi noto soprattutto come spalla di Tex Willer nei fumetti della editrice Bonelli, ma che qui viene presentato come protagonista di avventure pretesamente più aderenti alla realtà storica del personaggio.


Ecco la copertina del numero 1, firmata da Kinstler. Nella prima storia dell’albo, non accreditata ma verosimilmente non disegnata dal Nostro, viene raccontata la “vera” vita di Carson, inclusa una parentesi giudiziaria:



a Santa Fè, il sedicenne Kit viene infatti condotto davanti ad un anziano giudice che prima lo condanna senza nemmeno consentirgli di difendersi, poiché il ragazzo non capisce lo spagnolo, poi ribalta totalmente la decisione sol perché l’imputato gli viene ricondotto davanti, questa volta con l’assistenza (non legale ma linguistica) dell’autorevole don Pablo Esperanza, nipote del governatore militare della città. 
Sulla seconda di copertina, ove la qualità di stampa era migliore rispetto alle pagine interne, Kinstler si sbizzarrì con illustrazioni al tratto in bianco e nero che avevano il compito di sintetizzare le varie storie contenute nel fascicolo; alcuni di questi lavori sono tra i suoi più ricercati in assoluto.


Alla collaborazione con la Avon si affiancò, nel 1952, quello per Ziff-Davis Publications; la casa editrice aveva assunto nientemeno che Jerry Siegel per lanciare una propria linea di comic book, che però ebbe scarso successo e terminò in breve tempo. Da un albo di questa serie, Nightmare n. 2, è tratta questa pagina, che introduce un adattamento da Edgar Allan Poe (“Il pozzo e il pendolo”) con una scena processuale suggestiva ma poco fedele al racconto, dove i giudici sono molti di più, sono vestiti di nero, le loro forme si confondono con quelle dei torturatori.


Dal 1953, l’artista  iniziò una nuova collaborazione con la Western Printing/Dell. Per la collana Four Color Series, Kinstler disegnò diverse storie lunghe complete, tra cui adattamenti a fumetti di racconti western come Zorro, Outlaw Trail (da Zane Grey) e molte altre.
Nelle more vi fu un brevissimo incontro con Stan Lee. Secondo Jim Vadeboncoeur, Jr, dal cui volume edito nel 2005 per la JVJ Publishing è tratta la maggior parte di queste informazioni, l’incontro partorì una sola storia di 5 pagine; ma il sito atlastales.com ne cita due, su Mistery Tales n. 15 nel 1953, e su Western Tales Of Black Rider n. 31 nel 1955.

Documentato anche  un contributo, con qualche illustrazione, alla linea di riviste per uomini pubblicate da Martin Goodman, proprietario del conglomerato editoriale i cui marchi più celebri furono, nel campo del fumetto, Timely, Atlas, e l’attuale Marvel, oggi notissima soprattutto per i film tratti dai suoi “supereroi-con –superproblemi”.


Ulteriori collaborazioni con il mondo dell’arte commerciale, oltre ai pulp e ai fumetti,  inclusero illustrazioni per libri, dischi, poster.


Nel gennaio del 1957, Collier’s, una delle prestigiose riviste illustrate a cui maggiormente Kinstler aveva sognato di collaborare, chiuse i battenti; ed anche nella altre che sopravvissero, la direzione grafica e artistica si allontanava sempre di più dai maestri dell’illustrazione classica che Everett aveva venerato. Negli stessi anni, i pulp erano sul viale del tramonto ed i fumetti, dopo la nota caccia alle streghe del senato americano, accusati di traviare la gioventù a stelle e strisce, costituivano un mercato sempre più ristretto rispetto agli anni in cui Kinstler aveva esordito.
Di fatto, il suo ultimo contributo nel campo del fumetto fu nel 1959 per la collana Classics illustrated; mentre l’ultimo libro illustrato, pubblicato nel 1963, fu una monografia su Giuseppe Verdi, contenente una suggestiva copertina e, all’interno, ritratti di svariati  compositori.


Un disegno non utilizzato nel libro è sicuramente molto familiare a noi italiani di una certa età: 


si tratta della riproduzione, al tratto, di uno dei due ritratti del musicista eseguiti nel 1886 dal pittore Giovanni Boldini, l’altro essendo quello che per anni ha campeggiato sulle banconote da mille lire.


Prive di sbocchi, dunque, già sul finire degli anni ‘50, inizio dei ‘60, si rivelarono le collaborazioni editoriali di Kinstler.
Nel frattempo, però, era accaduto qualcosa di nuovo.
Pur avendo abbandonato la scuola a quindici anni, e pur impegnatissimo a sfornare “arte commerciale”, il disegnatore non aveva mai smesso di investire su se stesso. Deciso a migliorare le sue capacità di illustratore, si era iscritto, sin dall’inizio della sua carriera nel fumetto, ai corsi di Frank Vincent DuMond, un pittore che aveva studiato in Europa e ai cui corsi d’arte, nel corso di circa cinquant’anni, studiarono alcuni dei più celebri artisti americani, tra cui il già citato Flagg.
DuMond non solo trasmise al giovane Kinstler le sue abilità pittoriche, ma anche lo convinse ad affittare un appartamento al The National Arts Club, un edificio abitato solo da artisti, al cui interno venivano organizzate mostre e dibattiti.
Ciò diede al giovane la possibilità di frequentare colleghi che divennero amici e maestri; ed anche di entrare in contatto con fenomeni artistici che un “normale” disegnatore di fumetti non avrebbe potuto incontrare; una foto del 1957, ad esempio, ritrae Kinstler insieme, tra gli altri, al pittore Salvador Dalì.


Nella veste di organizzatore delle conferenze del Club, Kinstler incontrò, tra le varie personalità, anche Ayn Rand, la controversa scrittrice americana di origine russa, autrice di romanzi basati su una filosofia chiamata “oggettivismo”, il cui maggior seguace, nel campo del fumetto, fu un certo Steve Ditko, papà dell’Uomo Ragno. La donna non gli risultò particolarmente simpatica.
Anni di attitudine a disegnare fumetti ed illustrazioni, uniti ad anni di apprendimento delle cosiddette “belle arti”, si mischiarono tra loro e si sublimarono in una nuova carriera: quella di ritrattista.
Nel 1957, Kinstler mostrò alcuni lavori ad una galleria d’arte chiamata Portraits, Incorporated, attraverso la quale, con un po’ di fortuna, ebbe la possibilità di  realizzare un ritratto del venticinquenne Forrest E. Mars, Jr, rampollo della famiglia industriale delle barrette di cioccolato molto note anche da noi.
Il ritratto piacque, così ne seguì un altro per un altro membro della famiglia, Forrest E. Mars, Sr.
Un appunto manoscritto del 1957, tratto dalla contabilità che l’artista teneva ai tempi, dà l’idea delle nuove possibilità di realizzo: gli 800 dollari ricavati dal ritratto sono incastonati tra i 45 ricavati da un altro lavoro, ed i 15 ottenuti dalla rivista pulp Ranch Romances. Decisamente, il cioccolato fa bene …
Il conflitto tra “arte commerciale” ed arte “vera” certamente si fece sentire, e non solo sul piano economico, se è vero che, alla sua prima mostra di pittura, nel 1959, l’organizzatore Erwin Barrie, titolare della Grand central Gallery, chiese a Kinstler di NON dire di aver disegnato in precedenza fumetti.  L’artista rispose secco: “E’ da lì che vengo”.
Anche quando il suo nome divenne celebre, e le sue opere ospitate nei maggiori musei degli Stati Uniti, il ritrattista non rinnegò mai l’autore di fumetti; esistono anzi numerosi disegni con i quali egli rese omaggio, da “grande”, ai personaggi che aveva disegnato alla DC o a Spirit, di Will Eisner, considerato il padre delle moderne graphic novel. Ecco un tributo ad Eisner in occasione della morte.


I suoi dipinti ufficiali dei presidenti degli Stati Uniti rimarranno nella storia. Li ritrasse praticamente tutti, da Richard Nixon a Bush Jr; esiste, ahinoi, anche un ritratto di Trump, realizzato ben prima che costui salisse inaspettatamente alla Casa Bianca.
Qui di seguito, invece, un ritratto di Ruth Bader Ginsburg, giudice della Corte Suprema americana, molto nota soprattutto per il suo impegno nella difesa dei diritti delle donne.



Everett Raymond Kinstler è morto il 26 maggio 2019, all’età di 92 anni.


Due anni prima, con un tratto già un po’ malfermo, aveva omaggiato ancora una volta Hawkman;  erano passati quasi 70 anni da quando aveva disegnato due storie dell’alato supereroe.

© Francesco Lentano

Per le immagini tratte da “Everett Raymond Kinstler – The artist’s Journey through Popular Culture – 1942 – 1962”, © Jim Vadeboncoeur Jr. ed Everett Raymond Kinstler




mercoledì 13 novembre 2019

Recensioni / STORIE DA DIMENTICARE, di Vittorio Giardino





Ritratto dell’artista da giovane

Per molti artisti, il rapporto con le opere giovanili non è stato idilliaco. C’è chi le ha rinnegate, chi le ha distrutte, chi semplicemente non ha mai ammesso di averle realizzate.
Nel campo del fumetto, uno dei casi più emblematici riguarda il personaggio di TINTIN. Quando il suo creatore, Hergè, che aveva realizzato il primo episodio un po’ per caso, raggiunse la maturità, decise di riprendere in mano gli episodi giovanili, ridisegnarli in parte, e farli entrare, solo in questa nuova veste, nelle collane di ristampe destinate ad eternare la fama del personaggio; ma da questo trattamento fu sempre risparmiato l’esordio, “Tintin nel paese dei soviet”, che poté essere ristampato solo poco prima della morte del suo creatore.

Tintin al museo del fumetto di Bruxelles

Vittorio Giardino, maestro pluripremiato le cui opere sono tradotte in mezzo mondo, non ha mai dato l’idea di soffrire particolari imbarazzi nel rievocare gli anni difficili degli esordi; è noto a tutti i suoi lettori, del resto, che egli abbracciò il fumetto con convinzione ed incoscienza, da adulto autodidatta, rinunciando ad una carriera già avviata di ingegnere.
Eppure, sebbene tutte le cronologie delle sue opere riportino diligentemente i cinque racconti apparsi nel 1978 sul supplemento La città futura – Fumetto, pochissimi lettori potevano dire di averle lette, e pochissime occasioni vi erano state, per Giardino ed i suoi storici, di citarle. Troppo diverso, quello stile acerbo degli esordi, dalla “linea chiara” che lo avrebbe reso famoso.
Per dare un’idea, il primo grande volume antologico dedicato al Maestro, il “Glamour Book” edito nel 1986 a cura di Vincenzo Mollica e Antonio Vianovi, dedica a queste storie solo quattro pagine. Altrettante sulla monografia curata da Oscar Cosulich nel 2013, cinque su “La quinta verità”, nulla su altre antologie o volumi critici.
Insomma, il dubbio che Giardino in fondo si vergognasse un po’ dei suoi esordi, esisteva; e non era certamente facile, né per i comuni lettori, né per i fan sfegatati del Maestro, poter giudicare con i propri occhi quale fosse la qualità di quelle cinque storie. La rivista che le aveva pubblicate, infatti, era un supplemento aperiodico ad una rivista edita dalla FGCI, costola del Partito Comunista Italiano che fu. Una testata, dunque, non professionale, anche se pubblicò fumetti di grandi autori, soprattutto francesi, sotto la direzione di quel Luigi Bernardi che in seguito, come direttore della rivista Orient Express e di tanto altro, sarà un protagonista dell’editoria italiana, a fumetti e non.
Circolavano, anzi, varie leggende su questa introvabile testata; una, di fonte oscura, voleva che un esponente dell’ex P.C.I. (o P.D.S., o D.S., o niente…), una volta giunto al potere, avesse deciso di eliminare quante più collezioni possibile, proprio per cancellare, a sua volta, qualche imbarazzante scritto di gioventù.
Senonché a Lucca Comics, edizione 2019, l’editore Mauro Paganelli ha presentato, un po’ a sorpresa, il volume STORIE DA DIMENTICARE, che non solo ristampa i cinque episodi già editi (quattro direttamente dalle tavole originali), ma ne ripesca addirittura un sesto, a suo tempo non pubblicato per la prematura scomparsa del supplemento.

Fumetti & pannolini

“Storie da dimenticare” a conferma della vergogna dell’autore? Macché, si tratta di un doppio senso per così dire postumo; il ciclo di storie fu infatti presentato con questo titolo fin dalla sua prima apparizione, quando certamente il suo autore non poteva prevedere gli sviluppi della sua carriera. Semplicemente, la serie ebbe questo titolo perché ogni episodio, indipendente dall’altro, mostrava le nefandezze di una certa epoca, pescando a piene mani tra le nequizie della storia: le violenze dei romani alla conquista del mondo; quelle dei coloni americani sui nativi; e poi la tratta degli schiavi, l’antisemitismo, ed altre forme di sopraffazione dell’uomo sull’uomo.

I quattro numeri de "LA CITTA' FUTURA" su cui apparvero i primi fumetti di Giardino

Nella prefazione al volume l’autore racconta con la consueta bonomia l’origine di queste storie; non nasconde che si trattò di esperimenti, una sorta di tributo a Dino Battaglia, un autore che in quel momento Giardino considerava come un modello; di qui la ricerca di un tratto ricco di grigi, in totale contrasto con lo stile grafico pulito che poi l’autore svilupperà negli anni a venire, e che è diventata il suo marchio di fabbrica.
Anche nella difficoltà di trovare la propria cifra stilistica, Giardino non perse l’indole sperimentale da ingegnere: “Dopo aver provato tecniche e strumenti diversi, alla fine scelsi il tampone di garza. Sfruttai la garza di ricambio dei ciripà che all’epoca giravano per casa e costruii alcuni tamponi che, opportunamente intrisi di inchiostro e premuti con pressioni modulate sulla carta, ottennero l’effetto che potete vedere”. Ma questo effetto, in realtà, lo si vede ora per la prima volta a distanza di quarant’anni, poiché la stampa de La città futura non consentiva di apprezzare certe sfumature. I non molti lettori che dispongono di entrambe le edizioni, possono divertirsi ad operare i dovuti confronti.


“Dal dì che nozze, tribunali ed are…”

Tra gli episodi che compongo il libro, quello più meritevole di essere menzionato in un blog dedicato ai fumetti ed al diritto è certamente “Pax romana”.


Il titolo sembra ispirato alla famosa espressione Fecero un deserto e lo chiamarono pace, rivolta ai Romani da un condottiero dei britanni e riportato da Tacito nel “De Agricola”. Protagonista della breve storia, infatti, è Davus, un giovane dacio che si trova a Roma durante l’erezione della Colonna Traiana, l’opera che ricorda appunto la vittoriosa campagna militare contro i daci.
Davus si ritrova a Roma, integrato in quella società, vinto politicamente e militarmente, ma incapace di adattarsi ad una nuova realtà di cui fatica a scorgere il senso, e di cui individua simbolicamente alcuni elementi: la scrittura, il circo, ed il Tribunale.


Sappiamo poco su come funzionasse l’amministrazione della giustizia presso i daci; è probabile che una qualche forma di “tribunale” esistesse anche prima della conquista di Traiano; ma certamente il diritto romano è considerato, ancora oggi, alla base degli ordinamenti giuridici moderni di stampo latino (il cosiddetto Civil Law, contrapposto al Common law di origine anglosassone). E certamente il tribunale è uno dei simboli della cultura romana, tanto che, per anni, come abbiamo raccontato qui, un simbolo di romanità come Marco Tullio Cicerone ha dato il volto alle marche da bollo utilizzate per gli atti giudiziari.
Una piccola digressione sulla Colonna Traiana: non sono pochi gli autori che, nella rappresentazione della campagna di Dacia scolpita sul monumento, hanno visto una sorta di protofumetto per l’uso della successione di immagini.
L’affermazione si trova in alcuni dei più noti testi italiani di storia del fumetto: tra questi “I primi eroi” (Garzanti, 1965); “I fumetti”, di Gaetano Strazzulla (Sansoni, 1970); “Didattica dei fumetti” di Domenico Volpi (La Scuola, 1977).

da "Didattica dei fumetti", di Domenico Volpi


Non solo per fan

A chi può interessare oggi un’opera simile? Certamente ai devoti di Giardino, specialmente quelli che,  da anni, cercavano di reperire i rari esemplari de La città futura – fumetto. Ma, in generale, e nonostante il disegno incerto e lo stile lontanissimo da ciò che va di moda oggi, anche al lettore di fumetti semplicemente curioso. Utilizzare brevi storie di poche pagine per narrare flash storici a volte inconclusi, può alla lungo stancare chi oggi è abituato alle graphic novel o a storie di più robusta struttura; ma in realtà costituisce un utilizzo del fumetto che ha ancora qualcosa da dire.
Ciò che colpisce soprattutto, in queste storie, è la voluta mancanza di pathos. I drammi della storia sono narrati per lo più dal punto di vista di chi li ha vissuti senza minimamente rendersi conto dell’infamia e dall’ingiustizia di quanto stava accadendo. La freddezza del capitano della nave negriera, che ai suoi superiori racconta algidamente di aver dovuto gettare in mare il carico, come se parlasse di casse di rhum e non di persone, è uno degli esempi di questa imperturbabilità del male.
I protagonisti di queste storie sembrano insomma non consapevoli, tranne rare eccezioni, di essere tasselli di un ben misero mosaico che, parafrasando il titolo della prima raccolta di racconti di Jorge Luis Borges, potrebbe ben chiamarsi “Storia universale dell’infamia”.
Un Giardino “politico”? Forse sì, se con questo aggettivo si intende non l’adesione acritica a questa o quella consorteria, ma la consapevolezza di dove si trovi l’ingiustizia nella storia e nell’anima dell’Uomo. Ed allora forse non sembrerà arbitrario, in questi giorni oscuri, ricollegare quelle pagine del 1978 ad altri, più recenti interventi grafici del Maestro. Come il manifesto utilizzato per la mostra “L’offesa della razza”, che rievoca le leggi razziali volute dal preteso “Grande statista del ventesimo secolo”. O il disegno qui sotto, utilizzato per un testo scritto da Liliana Segre, sopravvissuta all’Olocausto e senatrice a vita, che oggi deve subire la vergogna di una scorta per proteggerla dalle minacce ricevute.


Francesco Lentano 



domenica 12 maggio 2019

RICORDO DI ROBERTO CAMILLERI

Roberto Camilleri era un appassionato di fumetti, ma pochi lo conoscevano in ambito nazionale perché non amava mettersi in mostra. Era socio dell’ANAFI, iscritto a gruppi Facebook come Fumettoso ed a Catania, la nostra città, frequentava abitualmente Etnacomics; ma non aveva mai voluto avventurarsi a Lucca o in altre capitali del fumetto, e raramente interveniva nei dibattiti. Era anche questa una forma di understatement, la stessa che lo portava a rifiutare le mie continue proposte di scrivere a quattro mani qualche articolo di saggistica. Diceva di non esserne in grado, ma non era vero: aveva una cultura fumettistica ad ampio raggio, che si intrecciava con una conoscenza profonda del cinema e della letteratura.


Lo stesso understatement caratterizzava la sua attività di giudice penale. Stimatissimo da colleghi ed avvocati, prolifico nella redazione di sentenze, rifiutava gli onori che ciò avrebbe potuto portargli, e pensava solo a fare umilmente il suo lavoro. Se tutti i magistrati italiani fossero come lui, l’arretrato che affligge i nostri tribunali probabilmente non esisterebbe. E questo lavoro ha continuato a portarlo avanti anche nella malattia, con un coraggio ed una abnegazione tali da far vergognare tanti modesti “impiegati” della toga.


Quando nel 2015, con la Fondazione Marco Montalbano di Viagrande, ideammo la mostra GIUSTIZIA A STRISCE (20 grandi pannelli espositivi, installati nell’atrio del Palazzo di Giustizia di Catania, dedicati ai giudici nei fumetti), mi diede tutto il supporto possibile, aiutandomi ad organizzare la conferenza di presentazione, e diffondendo, tra i tanti suoi amici e conoscenti, il libro-catalogo della manifestazione.

Nato a Catania nel 1962, Roberto Camilleri aveva ricevuto un valido imprinting fumettistico attraverso il Corriere dei Piccoli prima, e quello dei ragazzi poi. Aveva conosciuto i classici americani editi dall’editore Spada (una sua zia ne faceva una sorta di commercio), i supereroi-con-superproblemi della Marvel editi dalla Editoriale Corno, la riviste d’autore francese Pilote e Metal Hurlant, il rinascimento americano anni Novanta degli Alan Moore e Frank Miller, sino ad arrivare alle graphic novel di ultimissima generazione. 

In un mondo di appassionati di fumetti spesso pronti a difendere solo questo o quell’autore, questa o quella serie, personaggio o parrocchia, Roberto aveva una curiosità intellettuale assoluta. 

Due le principali caratteristiche del suo amore per il fumetto. Innanzitutto, sapeva perfettamente che esso è parte di una Cultura letteraria, visuale, artistica, che non può limitarsi al mondo delle vignette. Perciò, insieme ai fumetti, leggeva di tutto: romanzi, racconti, saggi, libri di cinema, di arte, di politica. Aveva una bellissima collezione del National Geographic, una rivista che ha col fumetto più punti di contatto di quanto si pensi (il grande Carl Barks, che ideò Zio Paperone e decine di altri personaggi per conto della Disney, sosteneva di scrivere le sue storie ispirandosi agli articoli della rivista geografica americana).


Inoltre, era perfettamente al passo con i tempi e detestava l’approccio puramente nostalgico al mondo del fumetto. Quando qualche quotidiano riproponeva personaggi del passato come Miki, Blek, Tex o Zagor, che pure per ragioni anagrafiche avrebbero dovuto essergli graditi, scrollava le spalle. Lui era avanti, alla ricerca di nuovi autori. Gli ultimi giovani maestri che ha scoperto ed amato sono due italiani: Leo Ortolani, il cui Rat Man stimava un capolavoro; e Zerocalcare, di cui aveva acquistato l’opera omnia.


“Cinzia”, proprio di Ortolani, è l’ultimo libro a fumetti che mi aveva imprestato, pochi giorni fa, nell’ambito del nostro consueto interscambio di carta stampata. Non avrei mai pensato che non ci fosse il tempo di restituirlo e commentarlo insieme; e non potrò mai sapere cosa pensava dell’ultima parte di “Jonas Fink”, la trilogia di Vittorio Giardino che avevo tanto amato e che ci tenevo leggesse.


Forse la malattia, la paura di non avere un grande futuro, lo aveva reso, per converso, meno propenso a rifugiarsi nel passato e più desideroso di guardare avanti, di vivere pienamente la contemporaneità. Così, già un paio di anni fa, mi aveva detto che non desiderava più confrontarsi con i vecchiumi. I classici, di ogni campo, li aveva letti, visti, ascoltati da giovane, da Shakespeare a Topolino al “Barbiere di Siviglia”; ora desiderava vivere il suo tempo e guardare al domani. Navigava in Internet, giocava ai videogiochi, seguiva il Marvel Cinematic Universe, conosceva più canali Youtube di un adolescente; e naturalmente cercava di cogliere, nei nuovi fumetti, il germe di un futuro luminoso anche per un’arte che periodicamente viene data per morta.

Abbiamo fatto in tempo a vedere insieme “Avengers: endgame”, che gli era molto piaciuto, come ha ricordato la moglie Maria alla commemorazione svolta ieri in Tribunale.

Ma la testimonianza più inaspettata della sua passione per il fumetto, della sua voglia di vita e di futuro, me l’ha data ieri Bruno Caporlingua, l’esperto che periodicamente organizza delle chiacchierate, in una libreria cittadina, dedicate ad autori e generi della storia del fumetto.


Era il 13 aprile, avevo accompagnato Roberto ad un incontro sull’autore americano Frank Frazetta; partecipava, come di consueto, un piccolo pubblico di appassionati, alcuni dei quali non avevamo mai visto prima. Tra questi c’era Paolo, un giovane universitario, che dopo aver letto della morte di Roberto, ha scritto a Bruno: <<Mi dispiace davvero tanto. Non lo conoscevo ma da quel poco che ho visto mi è sembrata una gran bella persona. Sai? Al termine dell’incontro mi disse solo due parole, che a questo punto credo che mi rimarranno impresse. Mi disse che era felice di vedere dei giovani in mezzo a un branco di vecchi: “Significa che c’è speranza”>>.

Arrivederci, amico mio.

Francesco Lentano
Catania, 12 maggio 2019