Roberto Camilleri era un appassionato di fumetti, ma pochi lo conoscevano in ambito nazionale perché non amava mettersi in mostra. Era socio dell’ANAFI, iscritto a gruppi Facebook come Fumettoso ed a Catania, la nostra città, frequentava abitualmente Etnacomics; ma non aveva mai voluto avventurarsi a Lucca o in altre capitali del fumetto, e raramente interveniva nei dibattiti. Era anche questa una forma di understatement, la stessa che lo portava a rifiutare le mie continue proposte di scrivere a quattro mani qualche articolo di saggistica. Diceva di non esserne in grado, ma non era vero: aveva una cultura fumettistica ad ampio raggio, che si intrecciava con una conoscenza profonda del cinema e della letteratura.
Lo stesso understatement caratterizzava la sua attività di giudice penale. Stimatissimo da colleghi ed avvocati, prolifico nella redazione di sentenze, rifiutava gli onori che ciò avrebbe potuto portargli, e pensava solo a fare umilmente il suo lavoro. Se tutti i magistrati italiani fossero come lui, l’arretrato che affligge i nostri tribunali probabilmente non esisterebbe. E questo lavoro ha continuato a portarlo avanti anche nella malattia, con un coraggio ed una abnegazione tali da far vergognare tanti modesti “impiegati” della toga.
Quando nel 2015, con la Fondazione Marco Montalbano di Viagrande, ideammo la mostra GIUSTIZIA A STRISCE (20 grandi pannelli espositivi, installati nell’atrio del Palazzo di Giustizia di Catania, dedicati ai giudici nei fumetti), mi diede tutto il supporto possibile, aiutandomi ad organizzare la conferenza di presentazione, e diffondendo, tra i tanti suoi amici e conoscenti, il libro-catalogo della manifestazione.
Nato a Catania nel 1962, Roberto Camilleri aveva ricevuto un valido imprinting fumettistico attraverso il Corriere dei Piccoli prima, e quello dei ragazzi poi. Aveva conosciuto i classici americani editi dall’editore Spada (una sua zia ne faceva una sorta di commercio), i supereroi-con-superproblemi della Marvel editi dalla Editoriale Corno, la riviste d’autore francese Pilote e Metal Hurlant, il rinascimento americano anni Novanta degli Alan Moore e Frank Miller, sino ad arrivare alle graphic novel di ultimissima generazione.
In un mondo di appassionati di fumetti spesso pronti a difendere solo questo o quell’autore, questa o quella serie, personaggio o parrocchia, Roberto aveva una curiosità intellettuale assoluta.
Due le principali caratteristiche del suo amore per il fumetto. Innanzitutto, sapeva perfettamente che esso è parte di una Cultura letteraria, visuale, artistica, che non può limitarsi al mondo delle vignette. Perciò, insieme ai fumetti, leggeva di tutto: romanzi, racconti, saggi, libri di cinema, di arte, di politica. Aveva una bellissima collezione del National Geographic, una rivista che ha col fumetto più punti di contatto di quanto si pensi (il grande Carl Barks, che ideò Zio Paperone e decine di altri personaggi per conto della Disney, sosteneva di scrivere le sue storie ispirandosi agli articoli della rivista geografica americana).
Inoltre, era perfettamente al passo con i tempi e detestava l’approccio puramente nostalgico al mondo del fumetto. Quando qualche quotidiano riproponeva personaggi del passato come Miki, Blek, Tex o Zagor, che pure per ragioni anagrafiche avrebbero dovuto essergli graditi, scrollava le spalle. Lui era avanti, alla ricerca di nuovi autori. Gli ultimi giovani maestri che ha scoperto ed amato sono due italiani: Leo Ortolani, il cui Rat Man stimava un capolavoro; e Zerocalcare, di cui aveva acquistato l’opera omnia.
“Cinzia”, proprio di Ortolani, è l’ultimo libro a fumetti che mi aveva imprestato, pochi giorni fa, nell’ambito del nostro consueto interscambio di carta stampata. Non avrei mai pensato che non ci fosse il tempo di restituirlo e commentarlo insieme; e non potrò mai sapere cosa pensava dell’ultima parte di “Jonas Fink”, la trilogia di Vittorio Giardino che avevo tanto amato e che ci tenevo leggesse.
Forse la malattia, la paura di non avere un grande futuro, lo aveva reso, per converso, meno propenso a rifugiarsi nel passato e più desideroso di guardare avanti, di vivere pienamente la contemporaneità. Così, già un paio di anni fa, mi aveva detto che non desiderava più confrontarsi con i vecchiumi. I classici, di ogni campo, li aveva letti, visti, ascoltati da giovane, da Shakespeare a Topolino al “Barbiere di Siviglia”; ora desiderava vivere il suo tempo e guardare al domani. Navigava in Internet, giocava ai videogiochi, seguiva il Marvel Cinematic Universe, conosceva più canali Youtube di un adolescente; e naturalmente cercava di cogliere, nei nuovi fumetti, il germe di un futuro luminoso anche per un’arte che periodicamente viene data per morta.
Abbiamo fatto in tempo a vedere insieme “Avengers: endgame”, che gli era molto piaciuto, come ha ricordato la moglie Maria alla commemorazione svolta ieri in Tribunale.
Ma la testimonianza più inaspettata della sua passione per il fumetto, della sua voglia di vita e di futuro, me l’ha data ieri Bruno Caporlingua, l’esperto che periodicamente organizza delle chiacchierate, in una libreria cittadina, dedicate ad autori e generi della storia del fumetto.
Era il 13 aprile, avevo accompagnato Roberto ad un incontro sull’autore americano Frank Frazetta; partecipava, come di consueto, un piccolo pubblico di appassionati, alcuni dei quali non avevamo mai visto prima. Tra questi c’era Paolo, un giovane universitario, che dopo aver letto della morte di Roberto, ha scritto a Bruno: <<Mi dispiace davvero tanto. Non lo conoscevo ma da quel poco che ho visto mi è sembrata una gran bella persona. Sai? Al termine dell’incontro mi disse solo due parole, che a questo punto credo che mi rimarranno impresse. Mi disse che era felice di vedere dei giovani in mezzo a un branco di vecchi: “Significa che c’è speranza”>>.
Arrivederci, amico mio.
Francesco Lentano
Catania, 12 maggio 2019
Bellissime parole, che rendono appieno la sensibilità' e il garbo della persona cui sono rivolte.
RispondiEliminaUn magnifico ricordo.
RispondiEliminaEra una persona con un'umanità fuori dal comune...