domenica 10 gennaio 2016

L'Arte di giudicare (ovvero: Fumetti in Cassazione)

C’era una volta una rivista di fumetti che ad ogni numero, nella quarta di copertina, riproponeva lo slogan “Il fumetto è arte”. Anche se le feste sono passate, ecco un esempio “natalizio” di tali pagine, opera di Andrea Pazienza.


Quel rissoso, irascibile, carissimo Luciano Secchi (in arte Max Bunker, creatore di Kriminal, Satanik, Alan Ford e decide di altri personaggi), disse la sua in un intervento sulla rivista Bhang:

Se il Fumetto è arte, lo può essere anche il Diritto; ed ecco infatti un bel libro di qualche anno fa:


Stia tranquillo chi non ama la “casta” dei magistrati: l’autore, Guido Alpa, è un avvocato, oltre che un professore universitario.
Per mescolare insieme diritto e fumetto, abbiamo creato GIUSTIZIA A STRISCE, una mostra espositiva di immagini tratte da fumetti ove compare la figura del giudice. Tipo questa:


Ma proviamo un approccio diverso. Parafrasando il titolo di una nota opera letteraria, ci chiediamo: di cosa parlano i giudici quando parlano di fumetti? Fanno riferimento ad una qualche “arte”, o a qualcosa di molto più prosaico?
Grazie al CED, il centro elaborazione dati della Corte di Cassazione, possiamo digitare la parola “fumetto” nella banca dati delle sentenze dei giudici supremi, e vedere in che contesto essa viene usata.
La ricerca è sterminata, ma noi la limiteremo e proveremo a ridurla in pillole. Prendiamo, per ora, solo l’archivio delle sentenze penali (cioè di quelle ove v’è un imputato accusato di un reato) e limitiamoci alle ultime dieci.

Ebbene: ben sette riguardano sentenze di condanna per reati di falsificazione di marchi; si tratta cioè di imputati trovati in possesso di magliette, palloncini, giocattoli o chissà cos’altro, con marchi di personaggi Disney o di altre scuderie. In questo caso, i supremi giudici usano sbrigativamente (e forse impropriamente) il termine “fumetto”, anche se questi personaggi sono quasi sempre derivanti da cartoni animati.
Queste sentenze, insomma, non hanno nulla a che fare con il fumetto come prodotto editoriale o come fenomeno culturale; qui si tratta di marchi commerciali, spesso falsificati alla rinfusa (in una sentenza la contraffazione riguardava i seguenti marchi: Harley Davidson, Nike, Vespa, Playboy, Walt Disney: insomma, di tutto un po').
Per amor di statistica, riferiamo che, delle sette sentenze in questione, cinque sono a carico di cittadini cinesi; ma noi non facciamo certo discorsi a base etnica, anche se qualcuno ricorderà fumetti degli anni Sessanta come questo:

             Tex copyright Sergio Bonelli Editore s.p.a.

Molto più interessante la situazione del sig. A.A., nei cui confronti sono pronunciate ben due sentenze. Si tratta di persona condannata a pena elevata per gravi fatti di criminalità organizzata; ma le sentenze non riguardano questo, bensì il suo status di detenuto. In carcere, mr. A vuole leggere; come è suo diritto (quasi tutti gli istituti di pena italiani hanno una biblioteca, e comunque è consentito ricevere pacchi dall’esterno o acquistare dei beni).
Solo che, secondo il Direttore del carcere, A. stava leggendo riviste pornografiche; di qui l’applicazione di una sanzione. Il detenuto ricorre al magistrato di Sorveglianza (l’organo deputato a sovrintendere alla espiazione di una pena ormai definitiva), sostenendo che di fumetti si trattava, e non di stampa oscena; ma gli viene confermata la sanzione. Ricorre allora alla Cassazione, che rigetta il ricorso. Per quale motivo? Ognuno potrà trarre la risposta da sé, divertendosi a leggere questo passaggio di giuridichese puro:


A carico di mr. A, come detto, c’è un’altra sentenza, dello stesso tipo.
In questo caso, un altro direttore di un altro carcere aveva negato l'acquisto di un fumetto in quanto vietato ai minori degli anni 18 e quindi ritenuto <<non oggetto di indispensabile utilizzo>>.
Il detenuto ricorre in Cassazione per ribadire il suo diritto a tenere in carcere qualsiasi quotidiano, periodico o libro in libera vendita all'esterno; ma gli ermellini affermano che l'amministrazione carceraria non è tenuta ad esaudire la richiesta di acquisto di qualsivoglia rivista o periodico, quando i medesimi non siano previsti tra i generi e gli oggetti inclusi nell'elenco di quelli acquistabili all'esterno per il tramite di una impresa convenzionata con la direzione del carcere.
Resta qualche dubbio: che fumetti leggono i detenuti? Quali erano le riviste "vietate", o presunte tali, che il signor A.A. voleva introdurre? Queste sentenze nascono da un pregiudizio antifumetto, o costituiscono asettica applicazione di legittime norme di legge?

Nessun commento:

Posta un commento