Arriverà tra breve nelle librerie, edito
da Nicola Pesce, il bel saggio di Alessandro Bottero IL RAZZISMO NEI FUMETTI.
Opera meritoria sia perché aggrega dati spesso poco conosciuti, o mal riportati
nei testi di storia del fumetto, intorno al tema prescelto (che è poi la stessa
filosofia che ha ispirato il progetto GIUSTIZIA A STRISCE); sia perché lo fa partendo
da una questione di alto valore sociale e morale.
Il testo limita l’attenzione al tema del
fumetto statunitense (in particolare quello dei comic book) ed al problema del razzismo nella società a stelle e
strisce. L’analisi della produzione fumettistica, quindi, si intreccia con una
storia che, in fondo, tutti noi sentiamo vicina: quella delle marce dei
diritti civili, di Martin Luther King, di Rosa Park che rifiuta di cedere il
posto ad un bianco sull’autobus, delle sentenze della Corte Suprema che ebbero
il coraggio di smantellare meccanismi di segregazione razziale, in specie verso
i Neri, ancora esistenti sino agli anni Sessanta.
In questo contesto, il libro fornisce una
quantità sorprendente di dati spesso ignoti anche agli appassionati, e
reperibili solo con complicate ricerche sulle banche dati di Internet. Identifica
ad esempio il primo fumettista di colore (E.C. Stoner, 1897/1969); la prima
fumettista di colore donna (Jackie Ormes, 1911/1985); il primo personaggio di
colore titolare di una testata (non Luke Cage della Marvel, come si pensa di
solito, ma un certo LOBO, che nel 1965 apparve in edicola con sole due uscite); la prima
collana dedicata specificamente ad un pubblico di lettori di colore (ne uscirà
però un solo numero, nel 1947, sotto l’evocativo titolo di “All Negro Comics”).
Il razzismo e l’antirazzismo diventano,
nel testo di Bottero, anche un modo per andare controcorrente e dare, ad eventi
già noti, una chiave di lettura diversa. Ad esempio, si ritiene di solito che
la casa editrice EC, negli anni Cinquanta, chiuse le proprie serie di albi a
seguito di una inchiesta del Senato americano, ostile ai fumetti dell’orrore
che ne avevano decretato il successo. Sostiene invece Bottero che l’inchiesta
si concluse di fatto con una assoluzione, e che a volere il famigerato Comics Code, l’organo di autocensura che
per decenni applicherà un bollino di “garanzia morale” sulle copertine degli
albi, furono gli altri editori, DC in testa, per fare fuori dal mercato la EC , rea di aver pubblicato
memorabili storie antirazziste.
A proposito dell'Autorità che accordava il bollino, nel libro si
ricorda la figura del giudice Charles Murphy, che ne fu il presidente, ed al
quale si attribuisce una mentalità estremamente limitata, tanto da aver voluto
censurare una storia della EC (“Judgement Day”, di Al Feldstein e Joe Orlando) che esprimeva rispetto e solidarietà verso gli
afroamericani.
Narra Bottero che Bill Gaines in persona, l’editore della EC, si
tolse prima la soddisfazione di mandare il Giudice <<a farsi
f***ere>>, per poi ammainare bandiera e chiudere del tutto la
linea di propri albi a fumetti (o almeno dei pochi sopravvissuti alla “caccia
alle streghe”).
Si tratta dell’unico magistrato citato
nel volume.
Noi, che di giudici apertamente razzisti ne
abbiamo trovato tanti nella nostra ricerca (a dimostrazione del fatto che
amministrare giustizia non ha nulla a che vedere con incarnare la Giustizia ),
approfittiamo dell’omaggio a Bottero per riprodurre le immagini di due delle storie in
questione che, nel volume GIUSTIZIA A STRISCE, non hanno
potuto trovar spazio.
Qui di seguito, vediamo un giudice bianco
che si rifiuta di escutere un testimone nativo americano; la sequenza è tratta
dalla serie di Red Wolf, un personaggio western della Marvel noto anche da noi
e citato anche da Bottero.
© Marvel Comics
Il tema della giustizia bianca che si rifiuta di
tutelare i rossi, quando questi hanno subito reati per mano di altri bianchi, è
un classico della narrativa western; uno spunto simile è alla base anche di una
celeberrima storia di Tex, “Sangue navajo”, opera di G.L. Bonelli & Galep.
Qui di seguito, da
Lanciostory n. 12 del 2007, “La legge del giudice Brighton” (testi di
Manuel Morini, disegni di Alberto Caliva), che esplora un periodo storico poco
noto. Un giudice tronfio e presuntuoso prende possesso della sua sede di
servizio in una colonia degli Stati Uniti. Siamo nel 1620, nella piccola
cittadina di Clairville; anglosassoni e nativi vivono in promiscuità, e la cosa
indigna il magistrato, che crede nella purezza etnica ed imbastisce contro un
indiano un processo-farsa, condannandolo per un reato mai commesso.
© Lanciostory - Editoriale Eura
Per leggere in inglese la storia “Judgement Day”, di
Al Feldstein e Joe Orlando:
Le storiche edizioni della EC sono ora finalmente
rieditate cronologicamente dalla Editoriale 001:
Alessandro Bottero gestisce un proprio sito, che
trovate qui:
E qui, invece, la pagine di Nicola Pesce Editore:
L’ipotesi accennata sulla creazione del Comics Code è puro complottismo (peraltro alla Dc non importava nulla della Ec). Gli editori decisero di autocensurarsi perché ormai gli edicolanti non esponevano più i comic book, a causa delle polemiche suscitate dai benpensanti. Esiste una sterminata bibliografia in proposito, in italiano si può leggere David Hajdu, Maledetti fumetti!, Tunué 2010.
RispondiEliminaIronia della sorte, la distruzione del mercato del fumetto (calato in un anno da 75 milioni di copie vendute a 5 milioni) dirottò l’interesse dai giovani al ben più trasgressivo rock’n’roll. E così i benpensanti se la presero in saccoccia.
Che l'inchiesta del comitato del Congresso sui fumetti si sia chiusa con un nulla id fatto è un dato che si trova nelle carte delle audizioni. Il comitato decise che i fumetti non avevano alcun effetto deleterio sui giovani e quindi non propose nulla. Furono gli editori a darsi in modo autonomo un codice di autocensura, esclusivamente per togliere di mezzo la RC Comics. questo è il dato che emerge dalla lettura degli atti. Gli edicolanti esponevano eccome i comic book. La Dell, con i fumetti della Disney vendeva oltre due milioni di copie al mese SOLO con la collana dedicata a Zio Paperone. La DC Comics con Batman e Superman vendeva milioni di copie. La EC Comics però era la prima casa editrice che pubblicava storie apertamente antirazziste. E questo non glielo perdonarono.
RispondiEliminaAlessandro Bottero
Quanto dice Bottero non trova riscontro nei testi americani sul fumetto che ho letto dal 1974 a oggi, anche se non posso escludere l’esistenza di testi particolarmente fantasiosi (d’altra parte ci sono anche libri sui dischi volanti e le madonne piangenti). Rimando ancora al documentato saggio “Maledetti fumetti” di Hajdu, perché recente e tradotto in italiano.
RispondiEliminaTutti i testimoni dell’epoca sono concordi nel dire che molti edicolanti si rifiutarono di esporre i comic book (naturalmente questo valeva meno per quelli dei personaggi dedicati ai più piccoli).
Ma l’infondatezza della tesi è evidenziata da un semplice fatto: nessun editore era obbligato ad aderire alla censura del Comics Code. Nemmeno la Ec, ovviamente. Se la Ec l’aveva accettata, è solo perché altrimenti molti edicolanti, non avendo la garanzia offerta dal marchio del Comics Code, avrebbero continuato a non esporre i suoi albi indirizzati a un pubblico maturo.
Ripeto, dato che nessuno l’obbligava, perché l’editore della Ec aveva deciso di sottoporre i suoi albi al visto della censura?
La Dell si rifiutò di passare per il Comics Code e non ebbe alcun problema legale perché, come dice bene Bottero, non era stata emanata alcuna legge contro i fumetti e quindi non c’era l’obbligo di sottostare al Comics Code. Tra l’altro, a guadagnarci dopo il crollo del mercato dei comic book fu soprattutto la Dell, che con le pubblicazioni Disney arrivò a vendere molto più di prima. Sempre senza passare per la censura del Comics Code: si autocensurava da sola.
Lasciamo quindi perdere l’assurdità secondo cui la stranamente razzista Dc (peraltro una casa editrice ebraica) ce l’avesse con la Ec (anch’essa di proprietà ebraica) perché antirazzista. Anzi, no, consideriamola. La Dc è razzista e vuole punire l’antirazzista Ec, e allora cosa può fare? Niente. Non può certo obbligarla ad aderire al Comics Code, un’agenzia privata di autocensura alla quale ci si iscrive su base volontaria.
Sauro Pennacchioli
Ecco come Hajdu descrive la situazione prima del Comics Code:
RispondiElimina“La Ec, che sfruttava un distributore abbastanza piccolo e poco influente, la Leader News, continuava progressivamente a subire danni, visto che i rivenditori erano sempre più riluttanti all’idea di trattare albi che potessero causare la reazione del pubblico o delle autorità locali. «Ricevevamo indietro scatolini ancora intonsi», ricordò Al Feldstein”, l’editor della Ec.
Inizialmente, come un paio di altri editori (che però pubblicavano solo albi per l’infanzia), Gaines, l’editore della Ec, decide di non entrare nel Comics Code e lancia nuovi albi con un tasso di violenza molto più basso. Sempre Hajdu scrive:
“«Cercai di non entrarci»”, nel Comics Code, “«e tutti i primi numeri delle mie nuove serie uscirono senza il logo. Ne vendemmo circa il 15% (delle tirature), il che è catastrofico. Così entrai nell’associazione e le vendite salirono (al) 20 o 25%, che è ancora catastrofico… tutto quel che facevo uscire andava in perdita». Per la fine di quell’anno «avevo finito i soldi», disse Gaines”.
Naturalmente Gaines non si lamenta mai della Dc, che non gli ha mai fatto niente di male (e non era una casa editrice razzista).
Sauro Pennacchioli